Memorie e radici in un giorno di marzo

Siedo a lavorare accanto alla stufa ascoltando canzoni della mia infanzia. Sono giorni di più presenti memorie. Sarà che domani sarebbe stato il compleanno di mio padre e prenderò un treno, ricordando come mi incoraggiò a salire su quello della mia vita per il gusto di andare ad una conferenza a Roma. Mi lanciò verso gli infiniti abissi del mio cielo come un aereoplano di carta di giornale e come una freccia del Profeta di Gibran. Si assicurò che tutti i pezzi fossero ben montati, scrutò i miei primi voli con entusiasmo e pazienza per poi farsi lui stesso aviatore di una rotta che non avrei potuto esplorare.

E passeggio per le strade assolate del suo borgo natale e per la prima volta in questo quarto di secolo varco le porte della sua chiesa. Con stupore ed evitando le pozzanghere d’acqua sul pavimento delle navate laterali. Freddo.

La mia Quaresima dura da inizio marzo a inizio maggio.

Uscendo m’incammino verso la vicina pasticceria dove mia nonna sempre comprava i cioccolatini artigianali che offriva a me e mio padre quando passavamo a trovarla, e sempre lui ne portava a casa e ne riempiva una graziosa barchetta di cristallo sostenuta da volute di ferro battuto. Chiedo un sacchetto proprio degli stessi dolci, per portarli a casa e sistemarli nello stesso contenitore, sperando di avere ospiti a cui offrirli con un caffé, o meglio ancora – ereditando direttamente dalla nonna – infilarne uno nella tasca della giacca di chi sta uscendo di casa a mani vuote. Non avevo mai fatto una cosa del genere. Mangiarne uno appena seduta in auto mi dà un forte brivido di felicità e piacere che si amplifica in tutto il corpo. Sento di poter osare di riallacciarmi a questi vecchi gesti di giorni abbastanza felici senza rimanere invischiata in una ragnatela di fantasmi. Sono passati anni. Resta un velo di dolce nostalgia al gusto di cacao e nocciole, il sorriso di un padre nelle fotografie e gli occhi luminosi di sua figlia al pensier di lui, l’immagine di due che si adoravano a vicenda e che stupivano i molti con la bellezza del loro rapporto, e il mio mal celato orgoglio nel pensare al mio seme generatore.

Mi ritrovo dunque ad ascoltare canzoni. E comprendo come anche questi dettagli apparentemente insignificanti che provenivano dagli intrecci delle vite dei miei genitori – che ora intuisco un po’ meglio esser stati a loro modo lottatori, dei resistenti, degli ostinati, dei partigiani – mi abbiano reso quel che sono e ciò che caratterizza il mio percorso, la mia evoluzione ed il mio divenire.  I miei genitori non si sono mai dati definizioni, almeno non in mia presenza, non mi sono mai apparsi concretamente schierati per un’idea o un movimento se non negli anni delle lotte in fabbrica, ma a parlarmi della loro eredità sono le minutezze che impregnavano il loro quotidiano quando ancora non si lottava con i denti e con le unghie, le scelte e i riflessi del loro semplice pensare nell’atmosfera che li circondava. Non capivo cosa li unisse, ma ora potrei ardire di scrivere che semplicemente s’amavano senza tanti perchè e condividevano la vita e tutte le sue battaglie. La vita li univa, nella presenza e nell’assenza di poesia.

Spesso è difficile comprendere i collegamenti con i nostri predecessori per il semplice motivo che il mondo ha evoluto così tumultuosamente i suoi modi e i suoi linguaggi da disorientarci e farci credere ciecamente alla frattura e allo sradicamento, rendendoci facile condannare o rifiutare tutto. Facile sentirsi persi e soli. Ma le radici ci sono, nulla viene dal nulla. Come camminando verso Santiago comprendevo me stessa attraverso ricordi d’infanzia legati alle nonne, ora accade anche con i miei genitori, e da quelle basi evolvo il mio pensiero e il mio linguaggio, disegnando una strada autonoma che tuttavia ha avuto qualche innegabile ispirazione che la mia anima di bambina recepì e custodì.

Un giorno ai piedi dei Pirenei francesi cercai di ricordare le parole di una delle canzoni che ho riascoltato oggi: “Il ragazzo della via Gluck” di Adriano Celentano. Realizzo quanto sia di estrema attualità e come il germoglio ecologista fosse in me dall’inizio del percorso.

“Ma un giorno disse vado in città, e lo diceva mentre piangeva. Io gli domando amico, non sei contento? Vai finalmente a stare in città. Là troverai le cose che non hai avuto qui, potrai lavarti in casa senza andar giù nel cortile! Mio caro amico, disse, qui sono nato, in questa strada ora lascio il mio cuore. Ma come fai a non capire? E’ una fortuna per voi che restate a piedi nudi a giocare nei prati, mentre là in centro respiro il cemento.”

Credo di essere quel che sono ora anche perchè mio padre metteva in auto queste canzoni, come anche, dello stesso autore, Un albero di trenta piani:

“Per la tua mania di vivere in una città  guarda bene come ci ha conciati la metropoli. Belli come noi ben pochi sai ce n’erano e dicevano: quelli vengono dalla campagna. Ma ridevano, si spanciavano, già sapevano che saremmo ben presto anche noi diventati come loro. Tutti grigi come grattacieli con la faccia di cera, è la legge di questa atmosfera che sfuggire non puoi fino a quando tu vivi in città.”

E perchè alcuni insegnanti ci facevano cantare Imagine o Blowin’in the Wind… Come potrei stupirmi di ritrovarmi ad ascoltare Lennon, Dylan e Baez tutti questi anni dopo, leggendo Gandhi e sentendomi pacifista? Senza scordare quei pomeriggi dopo la scuola sulle panchine del parco, a sedici anni, leggendo Disobbedienza civile di Henry David Thoreau, per finire, tempo dopo, all’interesse per il pensiero buddhista.

“Quante strade deve percorrere un uomo prima che tu possa chiamarlo uomo? E quanti mari deve navigare una bianca colomba prima di dormire sulla sabbia? E quante volte devono volare le palle di cannone prima di essere proibite per sempre? La risposta, amico mio, soffia nel vento, la risposta soffia nel vento. E quanti anni può esistere una montagna prima di essere erosa dal mare? E quanti anni possono gli uomini esistere prima di essere lasciati liberi? E quante volte può un uomo volgere lo sguardo e fingere di non vedere? La risposta, amico mio, soffia nel vento, la risposta soffia nel vento. E quante volte deve un uomo guardare in alto prima di poter vedere il cielo? E quanti orecchi deve avere un uomo prima di poter sentire gli altri che piangono? E quante morti ci vorranno prima che lui sappia che troppi sono morti?”

E potrei continuare lo stesso discorso con altri personaggi che hanno popolato la mia infanzia e continuano ad accompagnarmi ancora oggi, come Fabrizio de André. Ricordo ancora quando sempre mio padre mi cantò per la prima volta – sempre nella fidata automobile – La guerra di Piero ed io piansi. (Come piansi forte anche quando cantò Bella Ciao perchè, piccolina, credevo parlasse di lui.) In questo caso scegliere una canzone o una citazione è quasi impossibile, tanti sono i temi che mi hanno coinvolta direttamente.

“Porto il nome di tutti i battesimi, ogni nome il sigillo di un lasciapassare per un guado, una terra, una nuvola, un canto,un diamante nascosto nel pane, per un solo dolcissimo umore del sangue, per la stessa ragione del viaggio: viaggiare. […] Saper leggere il libro del mondo con parole cangianti e nessuna scrittura nei sentieri costretti in un palmo di mano, i segreti che fanno paura. Finché un uomo ti incontra e non si riconosce, e ogni terra si accende e si arrende la pace.” (Khorakané)

“Per chi viaggia in direzione ostinata e contraria col suo marchio speciale di speciale disperazione e tra il vomito dei respinti muove gli ultimi passi per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità, di verità.” (Smisurata preghiera)

“Signori benpensanti, spero non vi dispiaccia se in cielo, in mezzo ai Santi, Dio, fra le sue braccia, soffocherà il singhiozzo di quelle labbra smorte che all’odio e all’ignoranza preferirono la morte.

Dio di misericordia il tuo bel Paradiso lo hai fatto soprattutto per chi non ha sorriso, per quelli che han vissuto con la coscienza pura, l’inferno esiste solo per chi ne ha paura.” (Preghiera in gennaio)

Non posso nemmeno scordare Gaber, che da piccina mi sembrava solo un tipo divertente e che posso tuttavia affermare di conoscere poco. Ma credo immaginerete il mio brivido nel citare un brano – a cui posso ricollegare il mio coinvolgimento del Movimento per la Decrescita Felice – che ha già più di quarant’anni:

“Anch’io si anch’io devo andare sempre avanti senza smettere un momento, devo andare sempre avanti.
E lavorare lavorare lavorare e continuare a lavorare lavorare lavorare e non fermarsi mai, e non fermarsi mai e non fermarsi mai, e avere dentro il senso che non sei più vivo.
E faticare tanto, trovarsi con un vecchio amico e non saper che dire. Capire che non ho più il tempo per il riso e il pianto, saperlo e non aver la forza di ricominciare.
Non è che mi manchi la voglia o mi manchi il coraggio, è che ormai son dentro nell’ingranaggio.
Ricordo quelle discussioni piene di passione, di quando facevamo tardi dentro a un’osteria, l’amore, l’arte, la coscienza, la rivoluzione, sicuri di trovar la forza per andare via.
Non è che mi manchi la voglia o mi manchi il coraggio, è che ormai son dentro nell’ingranaggio.
Questo ingranaggio così assurdo e complicato, così perfetto e travolgente, quest’ingranaggio fatto di ruote misteriose, così spietato e massacrante, quest’ingranaggio come un mostro sempre in moto, che macina le cose, che macina la gente.
Si anch’io devo andare sempre avanti, anch’io devo andare sempre avanti senza smettere un momento, devo andare sempre avanti. E lavorare lavorare lavorare e continuare a lavorare lavorare lavorare e non fermarsi mai e non fermarsi mai.
E non fermarsi mai e ritornare a casa silenzioso e stanco senza niente dentro, appena il cenno di un sorriso senza convinzione. La solita carezza al figlio che ti viene incontro, mangiare e poi vedere il film alla televisione.
Non è che mi manchi la voglia o mi manchi il coraggio, è che ormai son dentro nell’ingranaggio”. (L’ingranaggio)

Quasi non vorrei concludere e proseguire nominando autori e citando stralci dei loro brani, ma fuori inizia ad imbrunire e ho scritto quasi duemila parole. Allora chiudo con un sorriso e, in fondo al cuore, tanta gratitudine per la vita, per la morte e tutto quanto vi è in mezzo ed oltre. Grazie per aver seguito fin qui. Arrivederci miei cari lettori, con l’augurio che anche voi possiate sorridere stasera ripensando a qualcosa che portate dentro, eredità più preziosa di qualsiasi ricchezza materiale. A presto!

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