Diari di bivacco tra il 7 e l’8 settembre 2016. Bivacco Moncalieri, Valle Gesso della Barra. A tratti quasi un manifesto del mio andare per monti.
Mercoledì, 7 settembre 2016
Pensavo di scalare qualche cima anelata per anni, ma la promessa del sole si trasforma in nebbia stabile in quota tra i 2850-3000 metri. Sonnecchio sperando che si apra una finestra, ma il cielo azzurro oltre la bianca coltre si nega. A metà pomeriggio mi incammino con alcune bottiglie vuote alla ricerca di acqua, avventurandomi alla base del ghiacciao del Lago Bianco del Gelas, salgo al Colletto della Barra dei Ghiacciai per guardarmi attorno e mi arrampico sulla cima omonima. La Maledia non si concede nemmeno alla vista e non posso osservare i passi utili per ciò che ho compreso essere forse domani. La mia minuscola spedizione si rivela più complessa del previsto – da lungo non incontravo la nebbia – e allora, nonostante abbondanti elucubrazioni, lascio il domani all’improvvisazione pura. Facendo ritorno nel mare detritico, selvaggio, instabile, che comunica un gelido senso di inospitalità e fa sentire l’uomo solitario un inetto e la sua vita poco più che un alito di vento, mi fermo per l’acqua e mi carico sulle spalle quasi 5 litri. Allora ci si rende conto della sacralità dell’acqua e non se ne vuole sprecare nemmeno una goccia. Quasi mezz’ora per trovar acqua da far bollire.
Avverto un lieve disagio pur sapendomi non in pericolo, ma come se sapessi che la morte è nascosta dietro ogni masso, sul livello mutevole della nebbia, o nel rumore del ruscellare sotto il ghiaccio. Ci vorrebbe coraggio a morire alla mia età, ma l’attrazione per questi luoghi è ancora più forte della paura, l’immobilità forzata ed il freddo che poco a poco penetra attraverso i vestiti nel corpo vibrante non fanno che aumentare la febbre della salita alle cime. E anche l’idea di una morte in un letto di ospedale rende quella di una fine più impegnativa, anticipata e appassionata qualcosa di più desiderabile. Allora mi riconosco in mio padre una volta ancora, è qualcosa in più del nostro sangue: è come un vincolo iniziatico.
E tornando, in uno degli innumerevoli passi fermi per alzare lo sguardo e studiare ogni dettaglio dell’ambiente così nudo e severo, scorgo il Passo dei Ghiacciai: sventolano bandiere tibetane. Un calore mi scalda il cuore. La presenza divina è forte e chiara, e ha un sentore fortemente ancestrale e innominabile. Sembra che sulle cime nascoste e inviolabili davvero riposino degli dèi, esse stesse sono questi dèi. Come nei tempi antichi, qui non si può peccare di hybris. Vita o morte, non ci sono altre possibilità. La montagna è più semplice delle persone: o accoglie o rifiuta. E’ necessario mettersi in ascolto per comprendere dove sia in ogni momento il confine tra il suo consenso e il suo diniego, allo stesso tempo del proprio umano limite in continua oscillazione.
L’uomo completamente ateo a mio avviso rischia maggiormente di non accorgersi di tale passo. Dico ciò perchè osservo in alcune di queste persone sì la stessa negazione della attuale necessità delle religioni tradizionali che io stessa condivido, ma anche una generale mancanza di altre sensibilità e un profondo senso di scollegamento. Credo che possa bastare un pensiero filosofico alla comprensione dell’Universo e della vita. In esso vi sono incluse una tensione etica, una estetica, una scientifica e una spirituale. Se le prime tre che elenco risultano apparentemente più comprensibili, l’ultima – la spiritualità- è per me una profondità di percezione, di pensiero, di coscienza. Essa permette anche la rivalutazione del lessico logorato dalle religioni e il riappropriarsi di parti di pensiero annegate dal nichilismo; inoltre a che vedere con la concezione della propria collocazione nel cosmo. Lo slancio filosofico è ciò che rende le mie uscite in montagna qualcosa di diverso da una limitata pratica sportiva. L’alpinismo non è un fine, è al limite un mezzo, una via di comprensione, ricerca, elevazione, crescita personale. Allo stesso tempo non è nè fine nè mezzo, ma pura espressione di vita, una chiamata spontanea del mio essere.
Non escludo di frequentare una palestra di arrampicata o di andare a correre: le condizioni ottimali del mio corpo fisico sono inseparabili da quelle del vasto campo interiore. Credo di aver capito che per comprendere l’esistenza nella sua ampiezza non si possano praticare estremismi, ma la via di mezzo, quella dell’equilibrio, è in assoluto la più ardua da trovare. A tale scopo – che di per sè non è da ricercarsi morbosamente, ma con disinteressata serenità – credo che sia un bene trovarsi in un ambiente severo, nelle condizioni in cui attualmente mi trovo, qui da sola. La montagna modella i suoi discepoli come gli eoni hanno modellato lei.
Ora lascerò la penna per studiare ancora una volta gli itinerari possibili, preparerò la cena ed infine cercherò di proteggermi dal freddo che si sta facendo avanti.
Giovedì, 8 settembre 2016
Da questa notte siamo immersi in nebbia e nuvole. Sono quasi le nove quando inizio a scrivere e attendo che la montagna mi proponga il suo verdetto definitivo. Sono venuta a lezione di moderazione dell’ego. Esso è palesemente nullo dinnazni alle forze che qui si dispiegano. Il bagliore che illumina l’aria lattiginosa è il segnale della lotta tra il sole e le nubi. Stanotte i venti non sono riusciti a pulire i cieli. L’attesa è più pesante dello zaino. Eppure vorrei poter attendere oltre, pazientemente come per mia natura, riducendo al minimo indispensabile le funzioni vitali, fino a vedere le cime nitide stagliarsi nello sfondo dell’universo blu più prossimo esploso nelle luci dell’alba. Almeno un altro giorno, ma devo scendere a valle entro stasera. Sarebbe così triste doversi contentare di un minimo di visibilità per poter appena ridiscendere! Ma sarebbe meglio di nulla. Oppure raggiungere un rifugio e poter avvertire a valle, e rimane in quota a sognare ancora la finestra serena, come stanotte: mi sono apparse nitide visioni di questi orizzonti che rinserrano il mio essere quasi come in prigione, ma nel cielo pulito e nella luce rossa del primo mattino.
Dalla porta ora il mondo selvaggio s’illumina, il sole è un faro pallido e accecante. C’è movimento. A monte, sulle cime desiderate, oscurità; sui laghi e le pietre scintille di luci e riflessi. Esco e siedo al debole tepore, in un’ultima trepidante attesa e nella consapevolezza che qualsiasi movimento sarà almeno inizialmente tristemente faticoso. Tutto si apre tranne la mia via. Il ghiacciao è buio, inaccessibile. Un filo di vento sta muovendo le nuvole verso nord, al di sopra azzurro completo. Pare di attendere l’apparizione di un dio ancestrale. Tutto è in rapido cangiamento su tutti i punti cardinali. Mentre si dischiude la speranza, così fanno gli orizzonti e la voglia di rimettere lo zaino in spalle e partire. Dov’è il confine? Temporeggio o ardisco di avventurarmi lassù anche se tutto non si è ancora dissipato? Nella mia mente persiste l’idea che una volta risalito il colletto della Barra possa ridiscendere la nebbia e intrappolarmi in un dedalo di rocce e ghiaccio. E’ tardi, è ora di muoversi. Prendere o lasciare.
Qui terminano le scritture in quota; desidero ancora aggiungere qualche pensiero, evitando come sempre i dettagli tecnici dell’escursione, perchè non scrivo per questo. Mi scuso per un improvviso cambio di tempi, ma non ho voglia di farne a meno. L’amore si fa al presente.
Venerdì, 9 settembre 2016
Cinque o sei anni fa mio padre, in una delle nostre uscite in montagna, mi portò al Rifugio Pagarì, in Valle Gesso. Lì mi innamorai non solo del luogo, ma di quella maestosa parete che austera scendeva a picco nella sede del ghiacciaio del Pagarì: era la Maledia. Da allora ho sempre sognato di poter salire lassù. Mio padre non me ne aveva mai parlato, forse non vi era stato nè lui, nè suo padre prima di lui. Solitamente mi portava in posti di cui aveva già fatto esperienza; ed ora vado in esplorazione laddove non mi è stato mostrato nulla, studio per tutto il tempo necessario e poi vado sul campo. Un limite che non accetto è quello di rimanere nel recinto del tramandato.
Quando mi sono ritrovata lassù in cima mi sono resa conto che la sensazione che provavo era diversa da quella di tutte le altre cime fino ad ora visitate. Ho compreso esser stato un amore del tutto diverso. Potevo volgere gli occhi al Gelas pensando vorrei salirci ancora di quest’anno, o l’anno prossimo al limite, oppure vorrei salire su quella cima stupenda prima o poi, ma non era lo stesso sentimento. Nemmeno l’affascinante seno rivolto al cielo del Clapier scatenava desideri simili. Così per l’Argentera, per il Monviso, o altre grandi cime della mia terra. Nemmeno i progetti ipotizzati per delle uscite in alta quota in Valle d’Aosta hanno lo stesso tipo di attrattiva. E’ qualcos’altro. Qualsiasi parola si fa riduttiva.
E’ come se dopo anni di corteggiamento la mia amata mi si fosse concessa completamente, trasformando il platonismo in una fusione completa. Ai suoi piedi ero in adorazione, così emozionata da non poter mangiare. Temevo che volesse nascondersi nelle nebbie per sempre, che fosse il suo modo di rifiutarmi. E invece ora ero lì, e stavo per posare le mie mani sulla sua roccia nuda. La sua presenza era impressionante.
La tocco alla base del canale scelto per salire. Tocco, sento nel corpo lo slancio per fare il primo passo verticale. Retrocedo ed esito ancora qualche istante, la contemplo. Lei è su di me. Un respiro profondo, so di essere preparata, salgo. Faccio l’amore con lei appiglio dopo appiglio, passo dopo passo, sguardo dopo sguardo, pietra dopo pietra. Ad un certo punto, sulla calotta detritica sommitale vengo inondata dai radenti raggi di sole. Poi la cima. Ed ora io su di lei, la posso baciare, posso piangere di gioia.
Ridiscesa, mi aggiro ancora un po’ nelle vicinanze, salgo due piccole cime vicine e poi mi avvio per un nuovo sentiero, per aggirarla completamente come per renderle ancor omaggio, per contemplare tutti i suoi versanti, tutte le sue forme, tutti i suoi umori. Passando per il Passo del Lac Long e per quello del Pagarì, rientro sull’omonimo rifugio, là dove mi innamorai.
Ho l’acqua del ghiacciaio nelle vene e lì rimarrà per sempre. Ho il sentore della polvere di lei mista al mio sudore sulla pelle, e non ne sarò mai lavata. Questa storia non finisce qui, c’è tanto di lei che ancora vorrei vedere, le albe e i tramonti e le diverse stagioni, contemplarla per intere giornate, disegnarla, dipingerla, cantare per lei. Tanto vorrei ancora amarla. Il primo amore saffico della mia vita.
Nelle foto, qualche scorcio di Lei…